Live Design ha parlato con il rinomato a livello internazionale progettista illuminotecnico. Per le immagini, tornare alla storia principale.
Quale evento o esperienza ti ha spinto a voler diventare un lighting designer? Magari una gita a teatro da bambino o qualcos'altro?
L’inizio, come spesso accade, è stato casuale. È successo nel mondo dei live-show, con un artista del rock italiano che allora muoveva i primi passi e che oggi è una star che riempie gli stadi, si chiama Vasco Rossi. Lo conobbi alla fine degli anni ’70 e venni coinvolto nei suoi primi tour estivi dal suo produttore che cercava qualcuno a cui affidare le luci. Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto.
Divenni l’autore delle luci e in cinque anni feci più di duecento concerti live, è stato un vero periodo formativo, che mi ha dato molto più di quanto potessi immaginare. Poi è arrivato il teatro, e lì è cominciata un’altra storia.
Dove ti sei formato?
Mi sono avvicinato al teatro frequentando un corso per tecnici di palcoscenico del Teatro Comunale di Bologna, è stato il primo passo.
Il passaggio dal mondo dei concerti a quello dell’opera lirica non fu semplicemente un'evoluzione professionale, ma una vera e propria rifondazione del mio rapporto con la luce. Sentivo la necessità di esplorare un linguaggio diverso, più articolato, dove la luce non fosse solo lo strumento per creare effetti spettacolari, ma potesse diventare mezzo narrativo, poetico, critico.
Approdare al teatro significò ricominciare da capo, sia nelle mansioni che nella mentalità.
Quale aspetto della tua formazione, sia essa formale all'università o informale sul lavoro, ritieni sia stato l'insegnamento più prezioso?
Nella prima parte del mio percorso nella lirica e nella danza, gli insegnamenti sono arrivati tutti da un luogo: il Teatro alla Scala. Qui ho potuto osservare il lavoro dei maggiori registi del panorama internazionale, soprattutto quelli di scuola italiana, primi fra tutti Giorgio Strehler, Franco Zeffirelli e Luca Ronconi. Nei primi tempi cercavo ogni occasione per osservare il palcoscenico da una prospettiva diversa: mi nascondevo in fondo alla platea per vedere ciò che vedevano i registi, per comprendere meglio la relazione tra luce e spazio, tra emozione e immagine. La luce, mi resi conto, non poteva limitarsi a illuminare: doveva interpretare, suggerire, svelare. Questo passaggio di consapevolezza fu fondamentale. Negli anni ’80 Vannio Vanni era il lighting designer del Teatro alla Scala, il massimo precursore dei lighting designer di oggi, una figura che ha rappresentato per me un punto di riferimento decisivo. Osservando il suo lavoro, imparai come la luce potesse trasformare la percezione dello spazio scenico, amplificare l’effetto della scenografia. Il suo approccio era essenziale, rigoroso, da lui ho appreso molto sulle tecniche di illuminazione. Tutto però solo osservando, ragionando su ciò che vedevo. Nessuno mi ha mai spiegato nulla.
Come è avvenuto il tuo avvicinamento alla Scala?
Partecipai ad una selezione pubblica per elettricista di palco e fui assunto. Credo che da quel momento in poi, la luce è diventata un campo di ricerca, un modo di pensare e costruire un linguaggio per il teatro.
Hai usato il termine "architetto dell'illuminazione" per descrivere il tuo lavoro. Questo implica che stai "costruendo" qualcosa, piuttosto che, ad esempio, dipingere il palcoscenico con la luce. Puoi spiegarmi cosa intendi?
E’ una definizione che mi è stata attribuita e la accetto anche se credo di non averla mai detta, ma va bene, parliamo di un progettista. Oggi non è possibile realizzare le luci per uno spettacolo senza aver elaborato un progetto. In passato non era così, c’era un aspetto “artigianale” che faceva parte del lavoro e che non era però improvvisazione, era qualcosa più vicino alla ricerca. Una esplorazione attraverso un nuovo linguaggio che si stava facendo strada: la luce. Voglio anche dirti però che mio padre era un pittore e credo che le mie luci si ispirino sempre, in maniera istintiva, ad una immagine che ha una ispirazione di tipo pittorico, fa parte dell’istinto qualcosa quindi di non “progettabile”, legata ad una sensibilità.
Cosa pensi dei cambiamenti nella tecnologia teatrale da quando hai iniziato la tua carriera? Pensi che ci siano molti più strumenti a tua disposizione o pensi che troppa attenzione alla tecnologia possa essere una distrazione?
E’ un tema di cui parlo spesso nelle mie lezioni e che sento particolarmente attuale, pensa che fino a qualche anno fa lavoravo senza i monitor che visualizzano i valori dei parametri della cue, perché volevo solo concentrarmi sulla visione dell’immagine che stavo componendo. Oggi però è impossibile non utilizzarli, è un fatto di velocità di esecuzione.
La mia sintesi è questa: l’arte e la creatività hanno bisogno della tecnologia per potersi esprimere, ma al tempo stesso la tecnologia per potersi sviluppare ha bisogno di raccogliere le istanze dei designers e creativi. E’ il principio dei vasi comunicanti.
Uno dei principali cambiamenti tecnologici degli ultimi decenni è stato l'introduzione delle luci a LED. Qual è stato il tuo approccio ai LED?
Le nuove tecnologie hanno rivoluzionato il lavoro del lighting designer e quindi anche il mio, trasformando radicalmente le potenzialità espressive ma anche il metodo stesso sia della progettazione che della realizzazione. I moving heads sono oggi una componente imprescindibile di qualunque impianto luci teatrale: attraverso la programmazione dei numerosi parametri – zoom, colore, intensità, fuoco ecc.– permettono una varietà sorprendente di soluzioni dinamiche, rapide e versatili. Accanto a questi, le consolle di ultima generazione offrono strumenti di gestione avanzatissima, capaci di governare impianti luci molto complessi, con grande precisione e velocità. Per un lighting designer, queste tecnologie non sono solo un mezzo per ottimizzare i tempi, ma veri e propri alleati nella fase, delicatissima, della programmazione. Anche le sorgenti luminose, con l’introduzione del LED e di nuovi standard di controllo, hanno contribuito all’evoluzione del linguaggio visivo. I led hanno obbligato i professionisti a mettere in discussione le vecchie metodologie per entrare in una dimensione che in pochi anni ha trasformato il modo di “fare luce”. Tuttavia, non è affatto detto che più tecnologia significhi automaticamente maggiore qualità. Anzi, a volte l’eccesso di mezzi può portare a un appiattimento creativo, a soluzioni standardizzate, lontane dalla vera necessità espressiva dello spettacolo. È sempre l’idea, la visione poetica, a dover guidare la tecnologia, e non il contrario.
Sebbene la tecnologia cambi costantemente, hai un apparecchio o un'attrezzatura "da lavoro" preferita che ti piace usare? Qualcosa che ritieni apporti un tocco di bellezza a una produzione o che sia affidabile?
Se mi chiedi quale tipologia di proiettore prediligo, ti rispondo quelli a sorgente led con sintesi addittiva, basati quindi sul sistema RGB più altri colori (fino a 9) come Ambra, Light Green ecc. Questi apparecchi permettono di “costruire” il colore in modo estremamente personale e offrono infinite possibilità di composizione, a differenza del sistema CYM (sottrattivo). E poi mi piace lavorare molto con le temperature colore, con la gamma dei bianchi. Ci sono proiettori fantastici per questo tipo di utilizzo, di grande qualità e precisione.
Ti piace lavorare con le tecnologie più recenti o ti mancano alcuni apparecchi o idee del passato?
Mi piace lavorare con le tecnologie attuali alle quali mi sono adattato, tutto sommato, facilmente. Del passato mi mancheranno presto le sorgenti tungsteno di alta potenza (5kw), i pars e i riflettori a bassa tensione (Svoboda). Queste tipologie non sono ancora riproducibili al 100% con le sorgenti led e quindi le loro caratteristiche peculiari probabilmente scompariranno.
Qual è il tuo approccio quando inizi un progetto? Ti ispiri al testo/alla musica e ti presenti il primo giorno con delle idee o è più comune chiedere suggerimenti al regista e poi svilupparli?
Il lavoro del lighting designer teatrale si colloca dentro un processo profondamente collettivo, che si nutre di scambi, intuizioni condivise e visioni che si intrecciano. La luce, per sua natura, non è mai un elemento isolato: esiste solo in relazione a ciò che illumina, e si definisce nello spazio che condivide con le scenografie, i costumi, i corpi, i suoni, le parole. Per questo motivo il lighting designer non può essere un autore solitario, ma diventa parte attiva di un dialogo creativo più ampio, in cui ogni elemento concorre alla costruzione del senso generale. È in questo terreno fertile che la luce trova la sua forma definitiva.
Questa dimensione relazionale è uno degli aspetti più difficili e delicati del lavoro, richiede capacità di ascolto, flessibilità, sensibilità per cogliere le esigenze altrui senza perdere la propria identità progettuale. Il lighting designer contemporaneo può essere considerato, in questo senso, anche un mediatore artistico, capace di muoversi con consapevolezza tra la tecnica e l’empatia, tra l’estetica e la funzione narrativa.
In ogni spettacolo il rapporto con il regista, lo scenografo o il coreografo è fondamentale ma non c’è un solo modo di lavorare insieme: ogni progetto ha una dinamica diversa, ogni artista un suo linguaggio. Alla prima collaborazione, bisogna imparare a conoscersi, conquistare la stima, trovare quella sintonia che non è mai scontata. Il regista ha il suo mondo, la sua cultura visiva, il suo modo di raccontare. Bisogna ascoltarlo, osservare, intuire cosa cerca davvero. A volte non c’è tempo, tutto corre veloce e se non si accende subito un dialogo vero, il lavoro può diventare difficile.
In definitiva, progettare la luce in teatro significa partecipare a una costruzione corale, in cui ogni scelta diventa una voce nel racconto complessivo.
Hai lavorato con molti registi d'opera. Cosa hai imparato da loro come designer? Ad esempio, qualcuno ha avuto una visione che non pensavi avrebbe funzionato, ma è riuscito a portarti con sé in quel percorso? O ti ha spinto a creare qualcosa che non ritenevi possibile?
Con Franco Zeffirelli ho avuto l’onore di ricreare le luci di alcune sue produzioni storiche. Ricordo in particolare l’allestimento di Aida nella versione del 1963, con le scene dipinte da Lila De Nobili: ogni scena era un quadro, la luce già presente nella pittura, nei chiaroscuri. In quei casi il mio lavoro era quasi invisibile, doveva accompagnare e rispettare qualcosa di prezioso, senza sovrapporsi.
Con altri registi, come Liliana Cavani o Gabriele Salvatores, ho vissuto esperienze diverse ma altrettanto stimolanti. Con Liliana, che ammiravo da tempo per il suo cinema e in particolare il film “Il portiere di notte”, ho lavorato a diverse produzioni, tra cui la storica Traviata della Scala diretta da Riccardo Muti. Con Gabriele Salvatores, invece, ricordo La gazza ladra, dove una vera acrobata interpretava la Gazza. Per seguirla con la luce durante le sue evoluzioni, ho usato un sistema di follow spot innovativo, che mi ha permesso attraverso dei sensori, di illuminare ogni suo movimento. È stato un esempio perfetto di come la tecnologia possa diventare parte della poetica visiva.
E poi ci sono gli incontri inattesi, come quello con Dante Ferretti. In Giappone, durante una Bohème che sembrava uscita da un film, mi chiese se fossi parente di Gilberto, mio padre pittore, che conosceva dai tempi dell’Accademia a Roma. Scoprire quel legame inatteso ha dato a tutto un significato nuovo, forse, in quel momento, sentivo di aver chiuso un cerchio.
In generale tutti i registi mi hanno lasciato qualcosa, alcuni molto, altri molto poco ma ci sono sempre insegnamenti da apprendere. Alla fine di ogni produzione mi sento di aver fatto un passo in più. Quando un regista mi dice o mi chiede qualcosa a cui non avevo pensato, penso che abbia quasi sempre ragione.
In cambio, in quali occasioni sei riuscito a guidare un regista verso qualcosa di visivamente fuori dalla sua zona di comfort?
E’ difficile rispondere a questa domanda. Mi è capitato di lavorare a spettacoli che non mi piacevano, senza la necessaria convinzione. In questi casi io cerco di essere professionale e non tanto di portare verso la mia visione il regista. E’ troppo complicato. Certo faccio molte proposte, cerco di difenderle e spesso ci riesco, ma solo quando mi sento coinvolto altrimenti faccio solo il professionista, cerco di finire il lavoro meglio possibile.
Hai un regista preferito con cui lavorare? Perché?
Mi piace molto lavorare con Alex Ollè, regista catalano che fa parte del collettivo “La fura dels baus”, un gruppo che è nato a Barcellona negli anni ’80 con le performance di strada e che poi ha sviluppato il proprio lavoro in diverse direzioni tra cui, nel caso di Alex, anche l’opera lirica. Con lui e con il suo scenografo Alfons Flores, abbiamo realizzato una decina di produzioni tutte stimolanti, con soluzioni spesso radicali, facendo anche una ricerca sui linguaggi. Quello che mi piace di Alex è il tentativo di dare una interpretazione attuale, contemporanea, alle opere che mette in scena. La luce con lui è importante, sa cosa può dargli.
Qual è stata la sfida più grande della tua carriera: un problema in una particolare produzione o il superamento di una tendenza o di un problema nel teatro in generale?
Ti parlo de “Il prigioniero” del compositore italiano, Luigi Dalla Piccola, andato in scena a Lione con la regia di Alex Ollè. Lo scenografo Alfons Flores costruì uno spazio circolare avvolto per 2 terzi nella parte posteriore, da un tulle semicircolare nero e chiuso al centro, da un altro tulle cilindrico, come una grande colonna immateriale. Ancora un tulle circolare chiudeva lo spazio superiore, una chiusura che riprendeva in modo speculare la forma e le dimensioni della pedana sottostante. Una scena tecnicamente molto difficile per la luce, con pochissime possibilità di provenienza perchè il ceiling di tulle chiudeva le luci dall’alto, il cilindro centrale in tulle e l’altro tulle di fondo non permettevano l’utilizzo del controluce, né la luce frontale poteva essere una soluzione interessante.
A volte una condizione di difficoltà oggettiva, può rivelarsi una risorsa importante per scoprire nuovi linguaggi espressivi. Quella chiusura dall’ alto della scena, costituiva una forte limitazione per la luce, ma si è poi trasformata in un linguaggio visivo credo molto interessante con la luce dei moving lights, che intercettando il tulle del ceiling, ma percorrendo una distanza inferiore, proiettava le forme sul pavimento, in una dimensione più piccola. L’effetto faceva apparire queste forme come dei corpi luminosi sospesi. Questa condizione è diventata così una forma di linguaggio visivo e scenografico che oltre che completare l’immagine generale ha ispirato anche alcuni ambienti della storia.
Se dovessi scegliere una produzione preferita su cui hai lavorato, quale sarebbe e perché?
Rispondo “Quartett” per la sua originalità e immagine senza tempo, un’opera contemporanea commissionata dal Teatro alla Scala al compositore Luca Francesconi e ispirata all’omonimo lavoro teatrale di Heiner Müller, a sua volta ispirato alle celebre Liaisons Dangereuses di Choderlos de Laclos, che descrive la società aristocratica corrotta, prima della Rivoluzione francese. C’è una piccola stanza sospesa nel vuoto, tutto si svolge li dentro.
E poi Madama Butterfly che è stato il primo titolo di opera che ho affrontato come light designer nella versione giapponese di Keita Asari e che successivamente ho rifatto innumerevoli altre volte messo in scena da altri registi, tra cui una versione di Damiano Michieletto.
Ho letto il tuo motto: "Mani da elettricista e testa da lighting designer, il che significa avere l'umiltà di voler imparare dal basso".
Si esatto, significa saper operare con capacità tecniche ma sempre guidati da una visione più ampia, capace di leggere il senso profondo del lavoro scenico e di avere costanza e umiltà oltre ad una autentica aspirazione.
Come sei riuscito a rimanere al passo con la tecnologia, ad avere "le mani da elettricista" per tutta la tua carriera?
Credo di si.. credo di avere ancora se non proprio le mani ma sicuramente la testa da elettricista, nel senso di riuscire a capire i problemi tecnici che possono presentarsi senza fare richieste irrealizzabili. Si, frequento le fiere specializzate del settore e gli show room dei vari brand. Poi ci sono i miei allievi ed ex allievi che sono fondamentali nel tenermi aggiornato e che consulto spesso.
Oltre al motto, qual è l'insegnamento più importante che cerchi di trasmettere ai tuoi studenti?
E’ quello di imparare a guardare, cercare di andare in profondità dentro le immagini che ci vengono proposte. Cercare di capire i perché di determinate soluzioni di illuminazione. Di vedere film d’autore, possibilmente al cinema, di andare a teatro, di formare cioè una propria cultura visiva critica e di alimentarla costantemente, avendo termini di paragone e riferimenti storici.
E poi, davanti ad una luce che non ci piace, andare oltre il giudizio (che non serve) ma chiedersi sempre: cosa avrei fatto io?
Se non fossi diventato un lighting designer, cosa pensi che avresti fatto come carriera?
Credo che mi sarebbe piaciuto essere uno storico dell’arte.
I think I would have liked to be an art historian.